I sistemi di certificazione nascono, come sappiamo, con l’obiettivo di colmare quel vuoto informativo dovuto alle distanze spazio-temporali che separano il momento della produzione dal momento del consumo. Nell’assetto odierno globalizzato infatti gli scambi di prodotti alimentari, che in passato avevano una connotazione territoriale e locale, sono sempre più delle transazioni anonime mediate solo dagli organi della grande distribuzione; così si sono dovuti creare degli strumenti per attestare la qualità dei prodotti.
Questo soprattutto per quei prodotti i cui connotati qualitativi non sono verificabili dal consumatore. (credence good)
Quindi anche il settore del biologico, per rispondere alla necessità di trasparenza e per assecondare una domanda sempre crescente e sempre più delocalizzata si è dovuto conformare al sistema di certificazione di parte terza. Tale sistema prevede che sia un organismo indipendente e privato (Odc) ad effettuare la valutazione di conformità della produzione agli standard qualitativi dettati dalle legislazioni nazionali o, in Europa, dal regolamento cee 834/2007.
La certificazione di parte terza seppure ha rappresentato uno strumento utile nel fornire una garanzia ai consumatori conferendo ampia fiducia al sistema, porta con se una serie di inconvenienti: risulta troppo complessa dal punto di vista burocratico, costosa dal punto di vista economico, e semplificativa dal punto di vista delle singolarità rurali. Questo soprattutto per quelle realtà agricole di piccole dimensioni e di vera vocazione “ctonia”, che, come è giusto, non possono terminare la giornata compilando moduli o trattando con consulenti o ancora far rientrare nelle spese queste nuove tariffe di certificazione, tra l’altro costruite in un’ottica di concentrazione fondiaria e calcolate per superfici “monoculturali”. Inoltre all’interno degli standard biologici non sono inclusi degli standard sociali, che dovrebbero dare indicazioni in merito alle condizioni del lavoro salariale. In tale dinamica l’agricoltore ha un ruolo passivo, è considerato un cliente del mercato della certificazione che da strumento diventa obiettivo; così come il consumatore che appare del tutto estraneo al processo.
Quindi queste distorsioni hanno permesso di concentrare l’attenzione intorno ad alcune esperienze di garanzia alternativa gestite dal basso, attive sin dagli anni 80, 90 in molti paesi soprattutto del sud del mondo. Queste esperienze, studiate e denominate da IFOAM Partecipatory Guarantae System, sono sistemi di assicurazione della qualità che agiscono su base locale; sono i produttori ad essere certificati secondo un processo che prevede la partecipazione attiva delle parti interessate, basandosi sulla fiducia, le reti sociali e lo scambio di conoscenze. Gli elementi che distinguono tali sistemi sono: la visione condivisa, cioè la condivisione e accettazione collettiva dei principi che stanno alla base del sistema (giustizia sociale, sostenibilità ambientale, autonomia delle comunità locali, importanza delle diversità culturali); l’approccio partecipativo, ossia la possibilità di includere tutti gli attori nel progetto e nelle operazioni che il sistema prevede; la trasparenza, così che tutti i soggetti siano consapevoli e comprendano i meccanismi del sistema; la fiducia, che si crea man mano che i legami tra le diverse figure interne si consolidano; l’orizzontalità, ossia l’impronta non verticistica e antiautoritaria del sistema che consente un processo decisionale condiviso e un crescente apprendimento ed enpowerment collettivo.
Il sistema parte su iniziativa di gruppi locali formati da agricoltori, consumatori, e altre parti interessate (tecnici, distributori, ONG, associazioni varie) che decidono di condividere delle norme e delle procedure.
Quindi viene adottato un protocollo di garanzia sulla base degli standard biologici derivanti dalla normativa europea o dalle rispettive legislazioni nazionali, i quali sono contestualizzati ai luoghi e alle realtà produttive e possono essere completati da altri principi (l’eticità del lavoro, gli standard sociali ecc) Vengono programmate una serie di visite aziendali in cui gruppi misti costituiti da produttori, consumatori e altri attori interni al sistema rilevano la correttezza dei metodi colturali e la rispondenza agli standard condivisi. La documentazione raccolta nelle visite viene analizzata dall’assemblea oppure può essere inviata ad un consiglio o una commissione, che approva o meno la decisione di certificazione adottata dai gruppi locali. Creando reti solidali, valorizzando i prodotti locali, innescando commerci virtuosi, promuovendo un’agricoltura di prossimità e sostenendo la vitalità delle comunità locali i sistemi di garanzia partecipativa superano il mero intento certificativo per guidare le comunità e le regioni verso uno sviluppo locale e rurale, verso uno “sviluppo sostenibile” che degrada, vista anche l’incongruenza semantica della locuzione, alle forme della convivialità e del benessere, teorizzate dai profeti dello slogan della decrescita.
Dalla Tesi di Laurea di Nicola Antonio Totaro “I Sistemi Partecipativi di Garanzia, uno strumento alternativo di riconoscimento della qualità biologica nelle produzioni contadine”. UniBA Facoltà di Agraria – Anno 2011/2012